La montagna, lo sci e la seggiovia. I rischi di una dipendenza
Quando nel 1845 la Phytophthora infestans iniziò a far marcire le patate coltivate in Irlanda, i contadini non si preoccuparono solo di quanti ortaggi in meno avrebbero venduto. Le patate rappresentavano l’alimento su cui si basava la dieta della popolazione più povera. Molti capirono fin da subito che il problema era semmai cosa la gente avrebbe messo nel piatto per non morire di fame. La perdita dei raccolti di quegli anni passò alla storia come “grande carestia irlandese” ed è spesso usata come paradigma dei rischi legati alla dipendenza da una monocoltura. Rischi da cui non è esente nemmeno il turismo.
Nel 2020 la patata si chiama sci alpino, l’infestante è il covid-19 e al posto dell’Irlanda abbiamo le valli alpine. L’epidemia che attanaglia anche l’Italia aveva costretto lo scorso marzo a fermare le seggiovie, insieme a tutto il resto: scuole, uffici, negozi, cinema, teatri. Allora il grosso della stagione era già passato, fortunatamente. Tendenzialmente le stazioni sciistiche fanno il pieno all’Immacolata, a Natale e nelle settimane bianche a gennaio e febbraio, in quest’ultimo caso con il contributo dei turisti stranieri. Quando i primi freddi hanno chiuso l’estate, è diventato evidente che l’avvio della successiva stagione sciistica non sarebbe stato per nulla scontato. Una previsione che ha trovato conferma nell’attualità.
L’industria dello sci era malata già prima del Covid-19
Se la seconda ondata della pandemia impedirà, come sembra, l’apertura degli impianti a Natale, la montagna perderà la sua economia principale. Il Sole 24 Ore ha stimato in 7 miliardi il giro d’affari in Italia generato dallo sci, se si prende in considerazione la filiera che parte dalle aziende funiviarie e tocca a cascata noleggi di attrezzature, maestri di sci, alberghi, ristoranti. Aggiungiamo il divieto di circolazione tra regioni e diventa intuibile il dramma che si trovano ad affrontare realtà come la Valle d’Aosta o il Trentino-Alto Adige. C’è però un paradosso: l’industria dello sci non godeva di buona salute già prima della pandemia.
Molti osservatori indicano da tempo almeno due fattori di crisi: da un lato, la perdita di interesse verso lo sci alpino, quello praticato su piste preparate, diventato popolare tra gli anni Settanta e Ottanta. Dall’altro, il cambiamento climatico in atto che sempre più spesso nell’ultimo trentennio ha lasciato senza neve molte località sciistiche. Gli italiani che preferiscono racchette da neve – le cosiddette “ciaspole” –, sci nordico e scialpinismo rispetto alla coda dello skilift sono sempre più numerosi. Nel frattempo, la carta di Appennini e Alpi è punteggiata di stazioni sciistiche abbandonate. Questo non ha impedito nuovi progetti di ampliamento, quelli in fase di studio o di realizzazione sono tutti orientati a portare nuove piste e nuovi impianti tra i 2.500 e i 3.000 metri, per inseguire la quota neve. Ma è una spirale perversa, che devasta ecosistemi fragilissimi già sotto stress per il cambiamento climatico.
L’economia post-ski? Esperienze all’aria aperta e diffuse sul territorio
Il covid-19, insomma, sta assestando un duro colpo a un’economia da tempo in sofferenza per altre cause. Il tema è caldo e non mancano interessanti analisi in proposito, da parte di istituzioni come il Club Alpino Italiano e anche di chi lavora nel turismo. La conclusione è sostanzialmente una: la montagna deve liberarsi il prima possibile dalla propria dipendenza dalle seggiovie. Le alternative ci sono, ma occorre essere realisti. Non esiste una singola attività da sostituire in toto allo sci alpino. Esistono piuttosto nuovi modi per concepire l’economia delle zone di montagna. I principi della sostenibilità e della diffusione trovano applicazione nelle tante piccole attività che recuperano aree incolte, competenze dimenticate, esperienze innovative. Ideazione da anni affianca privati e amministrazioni nelle Alpi e in Appennino nello sviluppo di nuove idee di impresa e sviluppo territoriale. È una transizione facilitata dalla sempre più accentuata tendenza, da parte dei turisti, a preferire il coinvolgimento delle cosiddette “esperienze”. Outdoor, cultura e agroalimentare sono più che mai attrattori dall’incredibile potenziale inespresso.
Si cita spesso il caso della Val Maira, in provincia di Cuneo, una delle mete più amate da italiani e stranieri in cerca di attività all’aperto. Qui però lo sci alpino è praticamente sconosciuto, per cui vale la pena allargare lo sguardo al resto d’Europa grazie allo studio “Sustainable Mountain Tourism” pubblicato nel 2018 dall’Organizzazione Mondiale del Turismo. Prendiamo il caso di Flaine, stazione sciistica in Alta Savoia, che ha puntato sull’aumento dei flussi turistici nei mesi senza neve. Con le presenze nella stagione estiva in continuo calo dall’inizio del millennio, la strategia è stata tanto semplice quanto efficace: accesso gratuito a campi e attrezzature sportivi per chi trascorre almeno una notte in una struttura ricettiva di Flaine. Il nome della località, già associato allo sport grazie allo sci, non ha avuto difficoltà a diventare sinonimo di tennis, tiro con l’arco, fitness e attività per bambini, il tutto in una perfetta cornice alpina.
Recuperare in estate i flussi turistici persi d’inverno è una chiave valida in quasi tutte le realtà montane, ma non è l’unica soluzione. Austria e Germania offrono due esempi di riposizionamento diametralmente opposti che fanno entrambi leva sul fascino dell’inverno tra le Alpi. Ischgl, in Tirolo, ha lavorato per affermarsi come località alla moda con locali e vita notturna che attirano soprattutto i più giovani. La regione dell’Allgäu è diventata invece emblema del relax per quei visitatori in cerca di vacanze salutari, senza stress, incentrate su terme e attività all’aperto.
Quei sette miliardi di euro che fanno paura
D’altra parte, è stata proprio la diversificazione dell’offerta turistica a consentire la sopravvivenza delle oltre 350 stazioni sciistiche austriache, molte delle quali di dimensioni ridottissime. Insieme, formano una rete dove le possibilità per trascorrere il tempo libero sono pressoché infinite, sia d’estate che d’inverno. Un’ottima strategia di adattamento al mutare delle abitudini dei turisti, che sempre meno scelgono più di una volta la stessa meta per le proprie vacanze. Questi e altri casi dimostrano che, per andare oltre la monocoltura dello sci alpino, le località turistiche montane hanno a disposizione un’ampia varietà di strategie.
Il limite, semmai, è il peso di quei sette miliardi di euro mossi dallo sci alpino. È comprensibile il timore di non riuscire a sostituire un’economia su cui fino a ieri si basava la propria offerta turistica, per di più di tale magnitudine. Ma i numeri vanno letti con attenzione. Già nel 2015 l’associazione Dislivelli sottolineava come le società che gestiscono gli impianti di risalita– spesso compartecipate pubblico-privato – debbano fare conto sui fondi pubblici per mantenersi in piedi. Una perequazione nella destinazione di questi contributi potrebbe fare da volano a un’industria montana completamente diversa e meno dipendente da una singola attività.
Altri numeri: cinque miliardi, tanto è il valore dell’outdoor in Italia nel 2019, secondo uno studio presentato lo scorso anno al TTG Travel Experience di Rimini. Con Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige a far la parte del leone. Dodici miliardi secondo Isnart-Unioncamere il turismo enogastronomico in Italia, con una forte tendenza all’acquisto e alla degustazione di prodotti tipici nelle zone alpine e appenniniche. L’economia di montagna, insomma, può sfruttare tendenze estremamente favorevoli e lungimiranti. I contadini irlandesi di metà Ottocento non avevano molte alternative alle patate, ma chi vive oggi nelle Alpi e in Appennino può decidere di nutrire il proprio territorio con una dieta più ricca e variegata. Occorre però decidere oggi cosa seminare, per avere un raccolto assicurato in futuro.
(foto Unsplash, Pixabay)
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