Perché il fenomeno delle startup viene in genere sovrapposto a quello dell’innovazione tecnologica e del digitale?
Non sappiamo se le startup salveranno davvero l’Italia. Di certo ha finora giovato a molte redazioni e blogger che hanno trovato nella nuova imprenditorialità un filone d’indagine assai promettente. Quel che è certo è che, mai come in questi ultimi due/tre anni, il tema dell’imprenditorialità giovanile è tornata al centro della discussione pubblica – e, seppur con contraddizioni e incertezze, dell’agenda politica.
Il grande interesse, tuttavia, ci pare non sempre accompagnato da approfondimento sufficiente a rendere il fenomeno delle startup un solido volano per l’economia italiana. Lo si vede bene leggendo le notizie che lo riguardano. Se i media “generalisti” lo utilizzano spesso come fonte di notizie “di colore” (lo schema è la favoletta happy-ending ambientata nei garage in cui nacquero Apple e Microsoft), eccesso simile lo si ritrova nell’equazione “nerd = startup” di molta stampa specializzata che spinge sull’acceleratore del digitale come altra, immensa fonte di notizie curiose.
In sintesi: il fenomeno startup viene in genere sovrapposto a quello dell’innovazione tecnologica, tanto che – pericolosamente – la tendenza è a individuare nel digitale l’unico porto sicuro per un’intera generazione di italiani in balìa della tempesta economica. Ora, sia chiaro: abbiamo nessun dubbio sulla centralità della tecnologia nello sviluppo economico. Così come siamo assolutamente certi che buona parte dell’innovazione in tutti i settori economici passi anche attraverso la digitalizzazione di molti processi e servizi.
Però siamo anche persuasi dalla bontà di questa affermazione, donata ai posteri da un celebre politico all’alba del nuovo millennio:
Certo, il salame può viaggiare sul web, ma alla fine qualcuno lo dovrà pur produrre, perché la gente, dopo averlo acquistato via Internet, il salame lo vuole pure mangiare.
Una frase al limite del passatismo, certo. Ma erano altri tempi: si era agli albori dell’ecommerce in Italia e per molti acquistare qualcosa su un sito era ancora considerato alla stregua di uno sport estremo. Un lancio con il paracadute, senza paracadute. Tuttavia la questione centrale, secondo noi, è ancora quella: qualcuno deve pur produrre il salame. Qualcuno deve occuparsi ancora dell’hardware su cui far girare nuovi ed eccitanti software e piattarforme sociali.
Fuor di metafora: un po’ dell’attenzione riversata sulle startup tecnologiche andrebbe dedicata a quelle startup che, recentemente, il presidente di Coldiretti Giovani ha definito “startup anomale”, quelle che “operano in settori e segmenti che affermano il principio del made in Italy in modo originale e autentico“. Quelle, insomma, che hanno ricevuto il premio “Oscar Green”.
Sì, perchè fuori dai garage a la Steve Jobs ci sono centinaia di idee innovative che germogliano: c’è innovazione anche nei servizi turistici e, soprattutto, nell’agroalimentare. Ne abbiamo conferma ogni anno, seguendo il laboratorio di creazione d’impresa della Fondazione Garrone: anche quest’anno i progetti presentati rivelavano la tendenza ormai consolidata a puntare sull’eccellenza italiana.
È il momento, anche, di dare forza a esperienze come quella di ReStartApp, il campus residenziale avviato dalla Fondazione Garrone per sostenere lo sviluppo di idee d’impresa e startup impegnate nelle filiere tipiche dell’Appennino. Un progetto che guarda al futuro dell’economia e del territorio, che punta a creare posti di lavoro e a salvare boschi e campagne: emergenze con cui l’Italia, inutile ricordarlo, combatte da tempo.
È ora di pensare, insomma, che le strade che ci porteranno fuori dalla crisi economica e occupazionale non passino solo su Internet, ma anche tra i campi e i filari delle nostre campagne. E forse è il momento di sostenere l’imprenditorialità delle startup “anomale” con la stessa enfasi – da parte dei media – e con gli stessi strumenti – da parte del governo – assicurata a quelle che germogliano in rete.